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La marea del silenzio

Capitolo 11

Mentre Elisa e Matteo avevano percorso il sentiero che portava alla chiesa di Monteriva, l’aria era satura di silenzio . Le ultime piogge avevano reso il terreno viscido, e ogni passo era parso attutire il suono dei pensieri. Era sera inoltrata, il cielo di un blu profondo screziato dalle prime stelle. Avevano deciso di tornare alla cripta, ma questa volta con uno scopo preciso.

Matteo si fermò prima di raggiungere l’ingresso laterale. Aprì lo zaino e ne estrasse un foglio ingiallito, protetto da una cartellina di plastica.

«Cos’è?» chiese Elisa, avvicinandosi.

«Una vecchia piantina della chiesa. L’ho trovata all’archivio, quella volta in cui abbiamo consultato i documenti su Monteriva.» Matteo la aprì con cura, distendendola contro il muro di pietra. «Ho notato che qualcosa non tornava nella disposizione interna. Così mi sono procurato una copia. Guarda qui.»

Elisa osservò attentamente. La piantina, datata 1794, mostrava una stanza rettangolare alle spalle dell’altare maggiore, proprio dove avevano trovato la botola.

«Questa stanza non compare nelle planimetrie più recenti.»

«Esatto. È come se fosse stata cancellata. Ma guarda meglio.» Indicò un corridoio che si diramava verso est. «Qui. Conduce sotto l’attuale sacrestia.»

Elisa sollevò lo sguardo verso la chiesa, come se potesse vederne l’interno attraverso le pareti. «Quindi potrebbe esserci un secondo accesso.»

«E forse altri ambienti nascosti.»

«Dobbiamo scoprire se quella parte della chiesa esiste ancora. E perché qualcuno avrebbe fatto di tutto per nasconderla.»

Entrarono con cautela. Il silenzio della navata era rotto solo dai loro passi. Le torce elettriche disegnavano ombre lunghe sulle pareti.

Quando raggiunsero l’altare, la botola era ancora lì. Aperta, come l’avevano lasciata. Una scala in pietra scendeva nell’oscurità.

«Sei pronta?» domandò Matteo, accendendo la torcia frontale.

«No.» Elisa sorrise appena. «Ma andiamo lo stesso.»

La discesa fu lenta, attenta. L’umidità aumentava ad ogni gradino. In fondo, il corridoio si apriva nella stanza blindata che avevano già esplorato. Ma ora, armati della vecchia piantina, cercavano un passaggio ulteriore.

Ed eccolo lì. Una parete che, sulla carta, doveva proseguire. Matteo batté con le nocche contro la pietra. Un suono vuoto.

«È un’intercapedine,» mormorò.

Elisa passò il fascio di luce sull’intonaco. «C’è qualcosa… aspetta.» Avvicinò la torcia a un rilievo nel muro, una linea sottile appena percepibile.

«Una finta giuntura?»

Matteo sfiorò la linea con le dita. «O una porta murata. Ma guarda qui, sopra: questa pietra è leggermente scheggiata…»

Elisa la toccò con cautela. Era ruvida, polverosa, ma al centro sembrava esserci un piccolo incavo, come un foro.

«Hai un coltellino?»

Matteo glielo porse. Elisa inserì la punta nell’incavo e fece leva. La pietra emise un suono secco, una porzione della parete si spostò di pochi millimetri, rivelando uno spiraglio d’ombra.

«Ci hanno messo dell’impegno per nasconderla,» sussurrò Matteo, impressionato.

«Evidentemente c’era qualcosa che non volevano fosse trovato.»

Spalancarono lentamente e a fatica il varco, rivelando un passaggio stretto che si perdeva nel buio.

L’odore di muffa si fece più intenso appena varcarono la soglia del passaggio nascosto. Le pareti, strette e grezze, sembravano chiudersi su di loro, impregnate di umidità.

Matteo camminava davanti, la torcia sollevata all’altezza degli occhi. Ogni passo sollevava polvere finissima, che brillava nel fascio di luce come cenere sospesa. Elisa lo seguiva in silenzio, attenta a ogni suono, a ogni variazione.

Dopo una decina di metri, il corridoio si allargò in una piccola sala voltata, con pareti in pietra grezza. Sul pavimento, al centro, un’anfora di terracotta rovesciata e spezzata. Lì intorno, segni di calce, vecchie travi marcite, catene incastonate nel muro.

«Non sembra un deposito,» mormorò Elisa. «Piuttosto… un luogo dove veniva nascosto qualcosa. O qualcuno.»

Matteo annuì, sfiorando le catene. Una ruggine recente, dal colore vivace, macchiava il metallo.

«Non sono qui da secoli,» disse. «Qualcuno ha usato questa stanza negli ultimi tempi.»

Elisa si avvicinò al fondo della parete. In un angolo, quasi inghiottita dall’ombra, una porticina in legno chiaro, più moderna rispetto al resto. Non aveva serratura. Solo una maniglia in ferro semplice.

Matteo si avvicinò per primo, aprì con cautela.

All’interno, una stanza molto più piccola, quasi uno sgabuzzino. Ma quello che conteneva li lasciò senza fiato.

Un vecchio schedario in metallo arrugginito. Cartelle, fascicoli numerati, nomi.

E sopra tutto, appeso con una graffetta al primo dossier, un foglio con il logo stilizzato di un’organizzazione religiosa. Nessun nome, solo un simbolo: una croce sbarrata da un serpente.

«Che diavolo è questo?» sussurrò Elisa.

Matteo aprì la prima cartella. Fotocopie di documenti d’identità, bolle di trasporto, conti cifrati, ricevute di denaro. E poi, una lista: nomi, età, date di sparizione. Alcuni corrispondevano a quelli che avevano già trovato.

«È un archivio… un archivio di persone scomparse,» disse Matteo, voltandosi verso di lei. «Ma trattate come merce. C’è una colonna che indica origine, una per destinazione, e una per il valore stimato.»

Elisa impallidì.

Poi notò, nell’angolo più in basso della stanza, una piccola cassetta di sicurezza. Aperta. All’interno, un registratore a cassetta con un’etichetta scritta a mano: Vernazza, aprile. E accanto, una foto.

Era Edoardo Vernazza. Il giornalista. Vivo. Seduto a un tavolo, le mani conserte, lo sguardo teso.

Elisa lo sollevò con delicatezza. «Vernazza aveva scoperto tutto questo. E qualcuno si è assicurato che non potesse parlarne.»

Matteo le prese il polso. «Dobbiamo uscire da qui.»

Ma proprio in quel momento, un rumore sordo alle loro spalle. Un colpo. Poi un altro.

La porta da cui erano entrati si chiuse lentamente, da sola, con un tonfo metallico che li fece sussultare.

Restarono immobili, trattenendo il respiro.

E poi, nel silenzio teso, una voce. Lieve, distorta, come un sussurro filtrato da un altoparlante lontano.

«Non dovevate entrare.»

Elisa si voltò di scatto, spaventata. La torcia tremava nella sua mano. Matteo si era già avvicinato alla porta, ma era chiusa, e non c’era maniglia dall’interno.

«Hai sentito anche tu?» chiese lei, cercando di controllare il fiato.

Matteo annuì, senza dire una parola. Appoggiò l’orecchio alla porta. Nulla. Nessun altro suono. Solo il silenzio spesso e umido della pietra.

«Qualcuno ci stava osservando,» azzardò lui.

Ma Elisa non rispose. I suoi occhi erano fissi sul registratore. «La voce… sembrava quella di un uomo anziano. Calma. Quasi educata.»

Matteo prese il registratore, controllò che avesse ancora la cassetta inserita. Cliccò play. Il nastro girò, ma all’inizio solo fruscio. Poi una voce, roca, graffiata dal tempo.

«Mi chiamo Edoardo Vernazza. Se state ascoltando questa registrazione, probabilmente sono morto. O peggio.»

Un silenzio. Poi di nuovo la voce, più tesa.

«Ho seguito per mesi i movimenti delle donazioni verso la parrocchia di Monteriva. Non quadravano. Entravano fondi enormi da fondazioni mai registrate, e poi… sparivano. Ho scoperto che la chiesa aveva una doppia vita. Ufficialmente era chiusa, ma vi entravano spesso furgoni, anche di notte. Alcuni di quei mezzi appartenevano a cooperative giovanili, altre erano intestate a società inesistenti. E poi… ho trovato i nomi. I nomi delle ragazze e dei ragazzi. Tutti scomparsi. Tutti passati da qui.»

Il nastro si interruppe bruscamente. Un clic secco. Fine.

Elisa si passò una mano tra i capelli, visibilmente scossa. «Questo è troppo grande. È una rete. Una struttura. Qualcuno ha costruito attorno alla facciata religiosa un intero traffico di esseri umani.»

«E Vernazza ha pagato con la vita per averlo scoperto,» concluse Matteo.

Pochi istanti dopo, sentirono dei passi. Attutiti, ma netti. Provenivano da oltre la porta chiusa. Elisa spense la torcia. Rimasero in silenzio, immersi nell’oscurità, trattenendo il respiro.

I passi si fermarono. Poi un lieve cigolio. E qualcosa scivolò da sotto la porta.

Una busta. Bianca, con una croce tracciata a penna blu sul retro.

Matteo la raccolse con cautela. Riaccese la torcia. La aprì.

Dentro, una sola fotografia: ritraeva un uomo con i capelli grigi, lo sguardo rigido, vestito in abiti religiosi. Accanto a lui, un altro uomo, più giovane, in giacca e cravatta, mezzo volto sfuocato. Dietro di loro, il cancello della vecchia casa di riposo abbandonata ai margini del paese.

«Questo… è l’ex parroco. Galli,» disse Elisa.

Matteo annuì. «E l’altro?»

«Non lo so… ma non sembra un prete. E quella casa dietro…»

Elisa si voltò verso il corridoio da cui erano venuti. «Dobbiamo uscire da qui.»

Ma la porta era ancora chiusa. Nessun rumore all’esterno. Nessun segno di chi avesse lasciato la busta.

Poi, un click metallico. La serratura scattò.

Matteo aprì piano. Nessuno dall’altra parte. Solo la stanza voltata che precedeva lo sgabuzzino. E su alcune casse accatastate accanto al corridoio di accesso, una rosa bianca. Fresca.